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LA CULTURA IN ITALIA: TRA POSSIBILITÀ E INCERTEZZE

LA CULTURA IN ITALIA:
TRA POSSIBILITÀ E INCERTEZZE

di Emanuela Cruccu

Bisognerebbe ricordarsi che al di là del mare ci sono altre realtà che ci somigliano.
Bisognerebbe ricordarsi che non esistono solo grandi realtà, ma anche realtà meno grandi.
E bisognerebbe ricordarsi che ognuna di queste andrebbe salvaguardata, al fine di far funzionare un importante sistema che da tempo si preoccupa per la propria sopravvivenza: la Cultura.
Come se, per garantire che un territorio venga considerato abitabile, si decidesse di bonificare esclusivamente la zona più diffusa e più vasta.
Questo sta avvenendo, per esempio, nel nostro Paese, in cui si tende a concentrarsi sulle più importanti realtà, come gli Istituti dotati di autonomia speciale (si veda Pompei), limitando lo sforzo a quel preciso perimetro. Occuparsi di Cultura, soprattutto in Italia, non significa privilegiare, ma significa estendere il raggio d’azione a tutto quello che si trova all’interno di quel campo, in quanto tutto ricopre un ruolo fondamentale per il sostentamento economico dell’intero territorio nazionale.
In questo progetto, a tutti gli effetti indispensabile, giocano un ruolo essenziale le idee, purché siano chiare.
Non si può, per esempio, avere da una parte un ministro che ha l’urgenza di “aumentare” il costo dei biglietti d’accesso ai musei, e dall’altra un sottosegretario che ribadisce che l’accesso al museo deve essere senza dubbio gratuito. Sarebbe sembrato comprensibile se la controversia si fosse verificata tra maggioranza e opposizione; parliamo invece di due treni che dovrebbero viaggiare insieme e terminare la propria corsa nella stessa stazione. Avere idee contrapposte limita sicuramente nelle scelte, soprattutto se una delle due viene meno al principio di ‘accessibilità’ che qualsiasi campo dell’istruzione e della formazione dovrebbe vedersi riconosciuto. Tra i sostenitori di questa linea c’è anche Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena.
Come ci ricorda la giornalista ed esperta in comunicazione e culture digitali Carmen Baffi in un articolo pubblicato da TPI Cultura, diversi studiosi affermano che basterebbe, poi, guardarsi intorno per capire come questa soluzione potrebbe essere vantaggiosa, per esempio considerando ciò che accade nel Regno Unito (dove tutti i musei sono finanziati dal Dcms, l’equivalente del Ministero della cultura italiano) e più nello specifico alla sua capitale Londra, in cui importanti istituzioni museali (es. la Tate Modern o il British Museum) garantiscono al pubblico l’accesso gratuito. Il modello inglese prevede, inoltre, che alle sale delle collezioni permanenti si possa accedere senza pagare il biglietto; il contrario per le mostre temporanee.
Si parla, oltretutto, di un sistema accolto senza pregiudizi dai visitatori, sia inglesi che non.
Ma tale modello è applicabile nel nostro Paese? Rispondere ‘si’ sarebbe complicato e quasi impossibile. Un intervento che richiederebbe una spesa ingente e che peserebbe in maniera importante sulle casse dello Stato, visto il numero delle istituzioni museali che dipende direttamente dal Ministero, molto più elevato rispetto a quello dei musei inglesi, in relazione ovviamente al totale di quelli esistenti. L’effetto, come quello avuto conseguentemente all’accesso libero nel Regno Unito, sarebbe un sostanziale incremento dei visitatori che, in Italia, potrebbero raddoppiare specie nelle maggiori Istituzioni culturali che, nonostante il costo del biglietto d’accesso, sono comunque ritenute dal pubblico meta certa e imprescindibile.
Il costo non è, però, l’unica difficoltà che si potrebbe riscontrare, dal momento che si tratta di un’operazione che richiederebbe una particolare e complessa amministrazione degli stessi musei.
Confrontando le due realtà, quella italiana e quella britannica, si può comprendere come siano, poi, lontane tra loro per via di diversi fattori: la natura delle istituzioni museali, i diversi apparati normativi, la differenza del numero dei visitatori e così via.
C’è chi insiste, quindi, sul fatto che il sapere debba avere accessibilità democratica e chi, d’altro canto ne sottolinea i limiti e gli ostacoli.
È importante, insomma, riflettere su cosa significherebbe estendere la libertà d’accesso a tutte le fasce d’utenza, considerando che studenti e studiosi rientrano già in quella categoria per cui non è previsto entrare pagando il biglietto.
Oltretutto molti dei servizi che riguardano i musei italiani sono gestiti da enti esterni, e tra questi servizi c’è anche la bigliettazione. Se si parla di percentuali dell’intero fatturato, quella massima va all’ente esterno e quella minima al museo. È evidente, quindi, come il tema “bigliettazione” possa essere o no vantaggioso in base al contesto.
Si potrebbe dire semplicemente “non ce lo possiamo permettere”.
L’inciampo successivo è avvenuto quando è stato proposto di estendere l’orario di visita ai musei, proponendo l’apertura nelle ore notturne. Ma chi spiega il fatto che la carenza di personale rappresenta un serio problema nel nostro Paese?
All’interno degli edifici museali, il personale risulta essere sottopagato o costituito, nella maggior parte dei casi, da volontari o tirocinanti. Detto ciò, qual è la soluzione a questo problema? Sicuramente investire. I contratti di lavoro sono, oltretutto, tra i più precari. E stiamo parlando di un settore produttivo che è il secondo nella penisola a contribuire alla crescita del Pil.
Ma torniamo all’argomento iniziale, e cioè quello della valorizzazione e dell’importanza delle idee e di un progetto sostenibile. È certamente evidente l’esigenza di un nuovo modello di pensiero e di analisi dei percorsi da intraprendere, per migliorare la condizione di quelle realtà culturali che ricevono minore attenzione rispetto ad altre. Sarebbe utile intervenire al fine di renderle maggiormente attrattive, improntando tale operazione su una politica che si distingua da quella che vede come obiettivi prioritari il guadagno economico o la risposta turistica.
Si continua, invece, a sacrificare l’aspetto più profondo che contraddistingue un polo culturale, la sua storia e la sua funzione, e cioè quella di tutelare un patrimonio e garantirne l’esistenza nel tempo. Contribuire alla loro visibilità, promuovendone la specificità e l’importanza della loro salvaguardia e, allo stesso tempo, incoraggiando alla conoscenza.
La soluzione è, quindi, intervenire laddove è necessario creando un impianto in cui le più piccole realtà culturali ricevano le stesse attenzioni che continuano ad essere riservate a quelle maggiori. Lavorando, quindi, per evitare la chiusura o l’abbandono di quei poli culturali che non riescono a sopperire alla mancanza di fondi.
Si tratta di avviare una riflessione fondata sulla consapevolezza di un cambiamento indispensabile, che ha come unico scopo quello di consolidare un sistema fragile, promuovendo nuove strategie.
Il nostro Paese è uno di quelli che investono meno in cultura, situazione paradossale se si considera la quantità e la qualità dell’intero Patrimonio.
Valorizzazione e tutela devono perciò andare di pari passo, senza che l’una possa prevaricare l’altra all’interno del processo di ricostruzione che riguarda il settore Cultura: valorizzare è importante, ma tutelare significa soprattutto conservare un dato bene e garantirne la sopravvivenza. E poi, è essenziale anche saper scegliere le modalità di valorizzazione e conservazione. Questa è, per esempio, una situazione che si è palesata durante la precedente esperienza di Governo.
Questi aspetti, però, non sembrano coinvolgere più di tanto chi, un anno e mezzo fa, si è assicurato la gestione politica della Cultura. È sufficiente conoscere quale sia il suo primo obiettivo dichiarato nel momento del suo insediamento a Palazzo Chigi, e cioè “eliminare l’egemonia della sinistra nell’ambito della cultura” (se questo è il fine, immaginiamoci anche i mezzi).
Uno di questi mezzi potevano essere le tanto desiderate mostre sui Futuristi (se si è ferrati in Storia dell’arte, si capisce la scelta direi quasi identitaria), annunciate ai microfoni dei giornalisti.
Oltre le apparizioni tv o le celebrazioni mediatiche e l’ultima comparsa come “giornalista dei giornalisti” o professore improvvisato, non conosciamo né i programmi né i progetti, sempre che questi esistano. Stupisce poi la mancanza di attenzione ai diversi problemi strutturali che permeano questo settore, considerato lo sfrenato bisogno di investire sul ‘Made in Italy’.
Per poter rimediare alle evidenti lacune, si è oltretutto circondato di personalità qualificate ma dotate di competenze che però con “valorizzazione, tutela, conservazione e salvaguardia” hanno poco a che fare. Non si trova praticamente il nesso.
Se alcune iniziative ci sono state, in continuità con il ministro del governo precedente e anche condivisibili, non sembra esserci una visione concreta, ma solo un insieme di concetti astrusi e intrisi di populismo.
Di certo non aiuta il fatto di avere un sottosegretario che potenzialmente potrebbe essere fonte di idee e progetti, ma che in realtà cade, con un atteggiamento reiterato, in un microcosmo fantastico in cui è vittima del suo stesso protagonismo. Mai protagonista della Cultura.
Scelte più che discutibili forse, ma che non sembrano scontentare nessuno. Figuriamoci.
Se dei programmi non ne conosciamo il contenuto esatto, a quanto pare di idee ce ne sono, poche ma confuse.

British Museum


Emanuela Cruccu

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